Un professore psicanalista, Franco Valdesi, mentre sta per andare dalla moglie, con cui ha un ottimo rapporto, deve rimanere per un’ultima visita con una sconosciuta signora Rina Delmann, frattanto si ferma a parlare col collaboratore dottor Alberto Falchi, che gli dice di essere scontento, perché ancora scapolo a cinquant’anni. Inizia la visita, la signora Rina, di quarantacinque anni, rispondendo alle domande sulla sua vita, dice di avere avuto un grande amore, durato solo quattro mesi, di avere poi interrotto una gravidanza a diciannove anni, di essersi sposata per pochi anni, e di avere sempre in sé la collera per il primo amore, che l’aveva lasciata. È così adirata che mostra al dottore addirittura la pistola appena acquistata per uccidere l’antico amore. Nel parlare però scappa fuori che è proprio lui, il dottore, il suo primo amore. Così la seduta cambia completamente tenore e lo psicanalista, che neanche l’aveva riconosciuta perché molto invecchiata, cerca di calmarla e ricorda che era stata lei a lasciarlo. Ma Rina gli rinfaccia che l’aveva conosciuto tramite Alberto, il quale certamente l’avrebbe sposata, se lei non si fosse erroneamente innamorata di lui. Il professore chiama allora il collaboratore Alberto, il quale ammette che effettivamente l’avrebbe sposata. Ma lei se ne va, pagando inaspettatamente la visita all’infermiera. Il professore commenta con la tipica diagnosi della sindrome ossessiva delle donne, ringraziando il collega per averlo tolto dai guai. In realtà Alberto aveva risposto sinceramente, facendo così riemergere l’antica ferita.
Il radiodramma è in larga parte il dialogo commosso, irato, disperato di Rina con il professor Valdese, ottimamente interpretato da Lilla Brignone, capace di modulare i diversi toni, senza scivolare mai in un eccessivo virtuosismo, e da Salvo Randone, dalla voce rassicurante, ma non priva di un certo distacco cinico. Perché a prima vista non si può che dar ragione al professore ma, tenendo conto dell’epoca (il passato a cui ci si riferisce si svolge intorno alla metà degli anni Trenta) e dell’allora condizione della donna, lascia perplessi il distacco della diagnosi per un episodio di cui lui stesso è stato artefice, e che ha segnato due vite, di Rina e di Alberto. Anche per questo il radiodramma raggiunge una sua acme, quando Rina lo fa sentire ridicolo per la sua paura della pistola, perché era ovvio che lei mai l’avrebbe usato. La drammaturgia di Rosso restituisce al tradizionale tema del triangolo amoroso sfumature originali, a partire dal contesto clinico in cui il racconto e la confessione si svolgono. Così i dottori che dovrebbe contribuire all’analisi del passato si trovano catapultati dentro la storia e l’autoanalisi diventa un duro esame di coscienza sulle scelte e gli errori di un tempo perduto. Lo sforzo autoassolutorio del professore d’altronde non convince nemmeno lui stesso, con la constatazione che gli incontri non fanno che segnare la vita. Nel finale la diagnosi dei dottori sembra voler servire a prendere le distanze da un profondo coinvolgimento emotivo, ma in realtà svela la natura del loro rapporto, contraddistinto da lontani sensi di colpa, invidie e rancori mai del tutto sopiti. La scoperta che Rina abbia pagato l’infermiera, come se la confessione fosse stata una seduta di analisi come le altre, colpisce profondamente il dottore.
Fabio Borrelli, La visita. Radiodramma di Renzo Rosso, in «Radiocorriere TV», 1959, 42, pp. 6-7.