Nella prima parte l’azione si svolge nel 1844: i banditi stanno programmando la liberazione dei Fratelli Bandiera, incarcerati dai Borboni a Cosenza, ma essi rifiutano la loro collaborazione. Li incontra il contadino Giuseppe che vuole unirsi a loro. L’intendente chiede una tangente, i banditi cercano il denaro taglieggiando le persone facoltose della zona. Maria, moglie di Giuseppe, è disperata per aver perso il figlio e per se stessa, disonorata per colpa del signorotto Brunetti: gli chiede di ucciderla e lui la uccide. Ad Antonello, capo dei briganti, racconta che Brunetti gli aveva imposto di cederle la moglie, lui aveva tergiversato e allora, per il tramite di amicizie influenti, Brunetti l’aveva fatto arrestare e poi aveva violentato la moglie, cui era seguita la morte del bambino per soffocamento. Antonello allora decide di ammetterlo nella banda dei banditi. Rosa, serva dei Brunetti, viene convinta dal marito a lasciare aperta la porta, sicché i due banditi Barra e Carina rapiscono il Brunetti col figlio Luigino proprio dopo una sua violenta lite con la moglie Elena da Venezia. Il riscatto viene fissato in una cifra enorme, 4.000 ducati. Antonello riceve il corrotto maresciallo e il capo civico che gli propongono di consegnarsi con i compagni in cambio della libertà, Antonello pretende un salvacondotto e si accordano per un impegno da stipulare con l’avvocato di Antonello a Cosenza.
Nella seconda parte Antonello parla con Brunetti e chiama Giuseppe diventato brigante, il quale lo umilia, terrorizzato, e lo uccide. Barra ha una crisi di coscienza anche per aver tenuto con correttezza il figlio di Brunetti, Luigino e li sorprende Elena, la moglie di Brunetti, lieta di ritrovare il figlio sano e salvo, ma giunge Giuseppe che vuole uccidere il bambino, poi dissuaso. Completamente folle, Giuseppe muore precipitando in un burrone, e mamma e figlio si salvano. Intanto giunge la risposta dell’avvocato, che assicura del salvacondotto da parte del re Ferdinando II, purché se ne vadano con un vitalizio e fanno festa. Ma poi tutti quanti finiscono in carcere a Cosenza, dove erano stati giustiziati i fratelli Bandiera, perché i banditi erano stati traditi. Padre Antonio cappellano del carcere riferisce che sarebbe prossima la grazia, ma non è così. I briganti con un banale pretesto vengono passati al plotone di esecuzione, cantando al modo dei Fratelli Bandiera.
Nonostante aspetti un po’ schematici (e che ricordano l’archetipo di Robin Hood e i primi film sulla mafia, come ad esempio Nel nome della legge), la storia è assai efficace nel mostrare il dramma della miseria, delle vessazioni del potere costituito e la reazione della delinquenza organizzata. Emblematica è la figura di Giuseppe, uso a subire e a tentar di barcamenarsi, finché alla tragedia dello stereotipo del disonore agisce con la follia omicida, dapprima nei confronti della vittima, la moglie, e poi nella faida tentata anche contro il familiare del colpevole. Motivo ricorrente è il contrappasso che sembra giustificare la reazione assassina dei briganti con la corruzione, le sporcherie e i tradimenti dei privilegiati e del potere costituito.
L’interesse per questo testo del 1864, considerato da Benedetto Croce «un pasticcio di scene truci e di liberalismo di maniera», ritorna nel 1952, in occasione della sua pubblicazione a cura di Fausto Gullo (Feltrinelli). Il testo viene portato in scena per il Teatro Stabile di Torino nel 1960 da Gianfranco De Bosio (scene e costumi di Mischa Scandella, musiche di Sergio Liberovici) e ne viene realizzato un film per la tv con la regia invece di Ottavio Spadaro e l’interpretazione, tra gli altri, di Aldo Giuffé, Valeria Valeri, Alberto Lupo (in onda l’8 luglio 1964). Un altro allestimento viene realizzato da Roberto Guicciardini per il Teatro Stabile di Cosenza nel 1982 (edizione ripresa anche dalla Rai).
Andrea
Camilleri, Antonello capobrigante
calabrese, in «Radiocorriere», 1960, 27, p. 5.