Nella sera della vigilia di Natale tutti si apprestano a tornare a casa per festeggiare, un poliziotto sta per completare il proprio giro e un giovane strillone appena finiti i giornali vuol comprarsi una tacchina col vino per festeggiare. Arriva uno sconosciuto che si fa riconoscere per Giò-Mani di velluto, famoso rapinatore e scassinatore, appena uscito di galera dopo aver scontato otto anni, che intende far pagare al delatore che l’aveva fatto catturare e chiede allo strillone di avvertire giornalisti e fotografi per lo scoop. Invano il poliziotto tenta di dissuaderlo, lui dice di non aver paura di tornare nel carcere da dov’era appena uscito e, arrivato un giornalista col fotografo, sorprende il delatore con la sua ex compagna, punta la pistola, incurante che tutti cerchino di evitare la disgrazia. Il delatore gli dice che in fondo è lui che gli ha salvato la vita, perché altrimenti l’avrebbero ucciso, e alla fine si frappone un frate che fa notare a Giò che è in realtà lui ad aver paura a ricominciare una vita normale e onesta. Alla fine l’ex detenuto si convince e passa il Natale insieme al frate e lo strillone. Adesso lo chiamano il signor Giò, uomo normale, che mangia in compagnia la tacchina col vino.
È una tipica storia di Natale – mandata in onda infatti per la vigilia – avvolta nei buoni sentimenti della redenzione e del riscatto umano, perfino nella presentazione del «Radiocorriere» si dice che «L’intenzione, fin troppo palese, è volenterosamente edificante» (Lidia Motta, Buon Natale… signor Giò! in «Radiocorriere», 1960, 51, p. 44). L’atmosfera è un po’ troppo dolciastra e irreale, se si pensa che l’ex compagna del detenuto e il delatore si sono rifatti una vita assieme gestendo un esercizio commerciale ottenuto con i soldi della taglia per la delazione. La conclusione è frettolosa: basta solo l’invito del Frate alla cena di Natale per trasformare il potenziale assassino, delinquente recidivo, ma disperato per troppa solitudine, in un uomo normale.
Lidia Motta, Buon Natale… signor Giò! in «Radiocorriere», 1960, 51, p. 44