La scena si apre (e si chiude alla fine) con un desolato dialogo di due ubriaconi all’osteria: continuano a bere vino che sanno di pessima qualità, appunto alcool di legno. E si devono contentare. In realtà la prima scena è la rappresentazione di un racconto che il giovane Michele si ostina a scrivere fino a notte fonda illudendosi di essere un grande scrittore, mentre la sua famiglia fatica a tirare avanti negli stenti. Michele si iscrive poi alla facoltà di architettura e insieme ha un lavoro precario come correttore di bozze e la piccola casa editrice gli pubblica un libro, ma le spese sono detratte dal salario e alla fine fallisce. Lui continua a pubblicare racconti nei giornaletti di provincia, ma i compensi sono miseri e spesso nemmeno arrivano; la sorella Clara, bruttina e malaticcia, alla fine si adatta a lavorar come propagandista salendo inutilmente su e giù innumerevoli rampe di scale. Michele sogna di andare in una grande città dove crede che potrebbe fare strada come scrittore, ma la famiglia non ce la fa con la pensione del vecchio padre ammalato, e vorrebbe che sposasse Luciana, bella e soprattutto ricca, che potrebbe risolvere i problemi economici, ma lui è innamorato di Angela, che pure lo ama e vive lontana. Alla fine il babbo muore e la sorella è sempre più malata, Michele si adatta malvolentieri a sposare Luciana. Ecco perché, a poco più di trent’anni, si sente già vecchio e si trova perduto in un bar di terz’ordine a ridere disperato. Una risata che ricorda in maniera inquietante quella del protagonista suicida di Quando l’uomo ride, unico suo racconto premiato negli anni, peraltro da un modesto quotidiano.
In gran parte il dramma s‘inquadra
nella società piccolo borghese del dopoguerra, nella quale sono rigidi gli
stereotipi del mantenimento della classe sociale, in particolare per la sorella
e anche per Michele, che tutti sognano diventi architetto. Il padre appare
sotto questo aspetto il più concreto, mentre mamma e sorella, pur nel bisogno,
sono in una qualche misura incantate dalla maestria nello scrivere di
Michele, maestria che a ben guardare traspare alla fin fine illusoria a
lui stesso. È quindi un po’ il dramma della frustrazione dello scrittore
mediocre, che non riesce a divenire l’artista che sogna e deve quindi adattarsi
ad una realtà squallida, rinunciando ad una donna che ama per accontentarsi di
una, seppur formosa, che nulla gli dice, ma che ha i quattrini.
Il radiodramma è drammaturgicamente elaborato, suddiviso in numerose scene,
con alcune invenzioni che facilitano l’ascolto: si alternano dialoghi,
monologhi in forma di confessione, voci che si susseguono in dissolvenza a
indicare i pensieri del protagonista, scene che sono la rappresentazione dei
racconti scritti dal protagonista, lettura ad alta voce, voci riverberate
ancora per accentuare i momenti più interiori, o dialoghi tra personaggi in cui
il referente, di solito il protagonista della storia, a cui sono rivolte le
battute, rimane in silenzio suggerendo così in quel momento un’immedesimazione
tra ascoltatore e protagonista. L’attenzione drammaturgica è sostenuta da una
regia particolarmente ricca e attenta anche negli inserti sonori che non sono
mai riempitivi, ma introducono le scene suggerendo l’atmosfera emotiva. La
musica, a volte diegetica, aiuta a localizzare la scena, ma soprattutto è
orientata a indicare gli sbalzi sentimentali dei personaggi. Accade anche,
soprattutto verso la fine, che la musica prosegua pure durante i momenti
dialogati o monologanti sottolineando le crescenti inquietudini del
protagonista.
Enzo Maurri, Alcool di legno. Radiodramma di Giuseppe Negretti e Giovanni Panzacchi, in «Radiocorriere TV», 1959, 2, p. 5.