Il prefetto di polizia
incontra un antropologo per cercar di districare un delitto dai contorni
insolubili: la polizia è intervenuta, richiamata da un fragoroso alterco
all’ultimo piano e lì ha trovato i cadaveri di due donne, Chantal, la
madre atrocemente strangolata, e Camilla, la figlia gettata nel
vuoto; non c’è altro, tutto è sprangato, a parte un grosso sacchetto di monete
d’oro. L’antropologo si reca nell’appartamento insieme alla guardia che ha
scoperto il delitto e scopre che una delle finestre chiuse è apribile, sia pure
difficilmente, e che vicino all’apertura c’è il filo per la scarica dei
fulmini; l’antropologo va all’obitorio, dove trova strane ciocche di capelli
strappati, dopodiché col prefetto passa a esaminare tutte le persone che in
qualche modo hanno avuto a che fare con le due donne. Fra l’altro
apprende che nell’alterco si erano udite voci di lingue sconosciute. Si
convince che l’autore del crimine non può essere un uomo, ma un orangotango e
diffonde un annuncio nel quale s’invita il proprietario dell’animale a venire a
riprenderselo. Arriva un marinaio che narra di aver preso il gorilla nel
Borneo, che poi gli era scappato, di averlo seguito e di essersi arrampicato
nel filo del parafulmine fino alla finestra da dove aveva assistito alla scena
senza poterla evitare.
Questa detective story è tratta dal racconto di Edgar Allan Poe The Murders of the rue Morgue del 1841, età preistorica del genere “giallo”, si presenta talmente assurda da potersi ricavare solo le caratteristiche dell’abilità, in questo caso dell’antropologo, di analizzare i dettagli apparentemente ininfluenti per arrivare alla soluzione che nessuno si aspetta. Il radiodramma è interamente costruito attraverso i lunghi dialoghi dei personaggi, con una scarna ambientazione sonora.
Lidia Motta, La casa dal parafulmine, in «Radiocorriere», 1959, 30, p. 8.